Mi detesto, quando mi rivesto di tristezza, una coltre di velo che io stessa non riesco a strappare e che graffia. Carne e ricordi, ed indifferenza goffa, sempre la stessa, mentre gli altri non sono gli stessi. Forse pianeti, a volte dispersi, sospinti dai calci del destino. Ho una mia idea personalissima della dolcezza, e non ha fronzoli nè rimessi, ma è una linea retta che sa pungere il cuore. Una miriade di piccoli pizzichi, con sospiri per virgole. Come se ci scalassimo, senza regole e senza misure. A volte santa - poche, a volte puttana, e non mi riconosco mai nella mia sagoma, ma solo nella luce in fondo ai miei occhi, quella che vede solo chi ti sa guardare per davvero.Un vuoto, che ingombra, e la difficoltà di comunicare, di provare, di sentire, come dopo un ingorgo. Troppo di niente. E la mia inquietudine che diventa solitudine, perchè non si stempera, ma scava, rovista, oltre ogni bisogno di essere compresa.
Per quello ti consentivo di prendermi, senza spogliarmi mai.
Mai del tutto.
E quel piacere era una corda che si intrecciava, fitta e silenziosa, al mio tormento.
Come una luna inquieta, che piange e gioisce, in un rettangolo, come se fosse il suo cielo segreto.
Perchè io detesto la perfezione; la sottendono le stesse regole della cattiveria.
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