Fiori di acciaio…
Agosto era già la fine dell’estate, perché dalle mie parti l’estate, a quei tempi, iniziava tanto prima, molto tempo prima. E l’emozione di togliersi le scarpe e le calze, quando non potevi, non ti era ancora permesso, era più emozionante del dito nella marmellata. Era impagabile, una delizia impagabile, affondare il piede, finalmente scalzato e libero, dentro la sabbia, e affondarci l’inverno e la primavera e la scuola e tutto quello che ad un bambino poteva sembrare un peso ed iniziare ad inseguire, a rotta di collo, la spensieratezza e la voglia di sbavagliarsi, di slabbrarsi, a perdifiato. C’era quasi l’imbarazzo, dell’aver superato il confine tra il dovere e la gioia. E tutto questo, pensieri inconsapevolmente compressi nella gioia, finivano in un bagno, e a resistere nell’acqua ancora freddina, o non ancora troppo calda. Con lo stupore di ritrovare tutto immutato. Come se le conchiglie ci avessero atteso. Agosto segnava la parte più seria delle vacanze. Qualche giorno di mare, con papà, e poi si partiva. Nel cuore della notte, per simulare una partenza intelligente. Valige e cuscino e gomitate con mio fratello e l’immancabile coda, direzione nord, nonché la lite immancabile tra mia madre e mio padre che si scioglieva inevitabilmente in una resa, reciproca e desiderata, all’Autogrill prima dell’arrivo. E non era mai un arrivo definitivo. C’era la tappa dai nonni. Uno o l’altro. E a volte tutti e due. Perché i miei nonni erano separati, quando anche solo immaginare questa cosa era difficile. Erano separati, di fatto, come mi ribadiva sempre con austera serietà, e forse dolore, mio padre. E io mi sforzavo di capire cosa potesse essere uniti di fatto, invece. Deve essere stato una specie di marchio di famiglia, perché da allora in famiglia non ci siamo fatti mancare nulla nella “poliformica” anatomia della coppia, roba da manuale. Insomma agosto iniziava con questo bagno di famiglia ritrovata e poi il viaggio veniva battezzato dal tocco della gomma bislenca della macchina di mio padre, sul suolo romagnolo. In un paesino piccolo che, nei miei ricordi di bambina, era a forma di vacanza. Terme e libertà. Non si doveva dare la mano, perché non passavano le macchine e si poteva anche andare in giro da soli. E spalmavo burro sulle fette con dovizia e precisione, come una artigiana della colazione dal morso esatto. Perché alla fine neanche mi piacevano. Ma eroicamente portavo a termine la mia colazione, prima di affrontare la nostra passeggiata. Io, mio fratello, bambino a forma di ostacolo, e mio padre. Giornate di dolce far niente e di piccole deroghe. Mia madre ci raggiungeva dopo, perchè lei faceva le cure alle terme, noi vagavamo nel parco. Agosto era questo, la mia famiglia, sempre insieme. Quella camera di albergo, e spesso era sempre la stessa, perchè il Signor Peppino si assicurava che fosse così, e le tagliatelle nel piatto alla domenica, che la signora Gina faceva, proprio lei con sua suocera che l’aiutava. Albergo posta, si chiamava così. E la bicicletta, e le piante tra le dita, e il giocattolo della partenza. Finiva con adeguata e meravigliosa lentezza, il sole sulla pelle, quasi un triangolo sulle guance, e la voglia di tornare a casa mia. A casa nostra. Era un agosto senza mare, perché noi eravamo gente di mare.
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