domenica 14 aprile 2013

Mi piacevano le cose semplici e definite. Con i contorni sottili e decisi. Un po' come le parole. Preferivo quelle asciutte, senza affezione alcuna per quelle sdrucciole. Le usavo quanto bastava, per esprimere, per significare, ma senza descrivere le cose, che evidentemente erano già di loro, per quello che era la loro dimensione, a prescindere della mia percezione e dalla capacità di esprimerla. E mi sembrava, almeno quella volta, di essere ramo, dentro una foresta, persa tra le sue voci ed i suoi rumori, le urla dei tronchi, il loro fremito, e il sibilo delle radici ed il loro mescolarsi alla terra, il loro rovistare sempre più a fondo, a caccia di acqua. Io, finalmente incapace di sentire la mia, la mia voce, quella stessa eco di me stessa e dei miei desideri e delle mie pulsione selvagge o solo gli grido della serenità più bieca. Era così sottile il confine tra le cose importanti e quelle essenziali. E nella mattanza del bisogno e del desiderio non li distinguevo, e neanche il resto. Dove andavo? Dove era la luce? Cosa mi avrebbe restituita a me stessa? Soggetto attivo e passivo, come sempre, parti configgenti, ma per la prima volta con la chiara percezione di avere l'anima tra le dita e tutti gli errori che le colavano intorno ed addosso, fino al polso. Uno strano braccialetto, e con il polso imbrattato dai mie battiti e da tutte le scie di quello che era stato e che non avrei voluto. O che avevo voluto troppo e maledettamente. Ed era sbagliato ed inutile.
"Ti prego, taci. Non è successo nulla. Mi prenderò io cura di te. Ignora il ghigno e stringiti a me. Coprirò il tuo freddo e le tue stagioni.Suggerai la comprensione, e non lo saprai. Vorrei donarti l'oblio. Non smettere di stringermi. Non ti farò male.".
"Signor albero, non saprei".
La luce delle foglie e il loro palmo offerto al cielo ed i suoi rami ruvidi e sinceri mi abbracciavano e non mi facevano male. Graffiavano quel poco che consola. Come se mi fossi trasformata in foglia, in radice, in fronda. Sentivo una luna diversa. Quasi liquida. Fino alle viscere. E mi scorrevo, più lenta di linfa.
Ero solo una sillaba.
E mi piaceva. 
Non nutrivo più l'ego altrui nè assaporavo occasioni per nutrire il mio. E io lo sapevo, sapevo, perchè lo sentivo,  che il seme stava per bucare la terra. Avvertivo tutta la forza silenziosa dell'urto, della nascita, del dopo e del poi. Fino al risveglio.
Lontano.
Nè foglia, nè tronco, nè ramo, nè radice.
Solo donna.
E nessuna voglia più di spiegare.

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