venerdì 18 marzo 2016

Il coltello sul tagliere. La lama nella polpa fresca. Il frutto che si apre, mentre verso l’olio.  Mi lecco le dita. Il pane fresco. Meravigliosamente caldo. La seduzione meravigliosa del cibo. L’acqua bolle. Ed il vapore sa di tempo lontano, dolcissimo e pieno di respiri. E fiati. Tanti, troppi. Tutti insieme. I libri sulla cassapanca. Ed il telefono con il lucchetto. Le braccia di mio padre che cingono i fianchi di mia madre. Una delle poche scene intime che gli siano sfuggite. Forse un bacio sul collo. Li avrei guardati per ore, se non fosse durato un secondo. Io e mio fratello e la battaglia delle briciole. E le forchette che rimbalzano. “Scusa”. Ed una, due, tre smorfie. Odiavo il pane da affettare. E bucavo michette. Dei trafori nella scorza. Solo per strappare la mollica. E poi l’origano appeso fuori. Mi prude il naso solo a pensarci. La lama ancora a fondo. L’odore della cipolla rossa. La pasta è cotta. “Assaggiala se è giusta di sale”. “Dio che schifo, se non ci metti il sugo”. E poi mangiare, quasi come amarsi. Mangiare tutti insieme. E parlarsi, anche se le cose sono quelle di sempre. Morsi intorno alla tovaglia a quadri rossa, da riporre dopo averla ripulita fuori. Tanto poi i passerotti avrebbero fatto il ripasso.
Il coltello è ancora là.
Nella memoria.
La televisione ancora accesa.
“A tavola!”.
Noi siamo pezzetti di infinito.
Non siamo carne.
Non siamo ossa.
Siamo luce.
“…Between what is said and not meant, and what is meant and not said, most of love is lost..”

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