mercoledì 25 settembre 2013

Come pietre lisce e levigate le parole si atteggiano a pila precaria. La voce dell'acqua scandisce gli spazi. Come se la precarietà fosse il perno della coerenza, di quella coerenza che chiama gli errori a gran voce e scandisce i respiri. "Vieni nel bosco, seguimi". Mi piace ordinartelo. E sentirmi il fruscio della tua volontà che mi segue. E questa volta, una tra le tante, non chiedo, sussurro. Come quando le farfalle muovo le ali, indecise se spiccare il volo o muoversi i colori nell'aria, incontro alla luce. La voce dei sassi segna e cancella, come se ci fosse rimorso nel tempo che sfoglia, leviga ma non cancella. "A piedi nudi, sento l'erba tra le caviglie. E non è inutile". I graffi mi disegnano il passaggio e rincorrono i passi. "Ho il fiato corto, ma non mi fermo. Respirami vicino. Voglio guardarti mentre mi baci. E mentre ci imbrattiamo di rugiada". Non conto i giorni. Non più, mentre le albe si schiudono sui miei polsi, come tagliati, piccoli solchi che si rincorrono. "Nel bosco ti dirò il mio segreto". Ho cercato di plasmarmi e di piacere. Anche se mancava la scintilla. "E ho sognato un fuoco, più sincero delle sue fiamme". Nelle foglie leggo le risposte e ne assaporo la superficie, in una danza di dita e oblio. Non cerco, attendo. Ma nell'attesa vi è la ricerca più dolorosa, più pregna, più fiuduciosa. E la fiducia è l'illusione più crudele delle fate. E teneramente mi astengo. "Perfetto? No, sommamente sciocco". E mi liscio le caviglie e ci ritrovo parole ignorate. A cosa ti avvicini di più? Cosa sei? La porta del bosco ha spiragli? Perchè la rotta è persa, tranne che in un punto, dove scintilla ancora un frammento di stella.   

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