mercoledì 1 aprile 2009

Ho macchiato di bisogno il mio sogno. E mi sfaldo. Tra presente e futuro. Liquefatta ed assorta. Ho morso la voglia di assoluto. Baciando aria. Con gli occhi chiusi. A caccia di buio. E strappando il vuoto. Riempiendolo di me. E io mi svuotavo. Nel gioco della assenza. Denti nell'aria. La strappavo dal resto. Come se la mia fosse fame. Ma era solo paura di averne. E raccoglievo fiori di carta. Per adornare. Me. E il mio giardino. La mia treccia era stata mozzata. Un colpo secco. Un taglio deciso. Giaceva ai piedi del letto. E la mia innocenza con lei. Io la ricomponevo. E la rammendavo. Protendevo le mani e raccoglievo pioggia. Ma non aprivo gli occhi. Avevo bisogno di cullarmi. E ogni nenia andava bene. Anche il pianto.
E le nuvole si mescolavano al sangue.
Tulle schizzato di vermiglio.
E il mai si colorava.
Era al limite.
Tra i lembi di un colore indefinito.
Per rammendare il cuore.
"Disegnami.
Riempimi di significati.
Di creta e saliva modellami.
Raccoglimi al calar del sole.
E poi deponimi all'alveo dell'alba.
Nel grembo del giorno.
Abbandonami là.
In un giorno qualunque.
Ma ad un'ora precisa.
Come se fosse un rito."
E' più facile ricordare che dimenticare.
E mi segnavi i fianchi.
E mi facevi donna.
Mi creavi e distruggevi.
Lisciavi le deformità delle mie paure.
E io sul bordo ondeggiavo tra le tue mani.
Pericolosamente viva.
Ma la terra aveva ingoiato il verdetto.
E io vagavo.
Senza condanna.
Nè assoluzione.
Ignorata.
Mentre avrei voluto solo una pena da espiare.
Una qualsiasi.
Nulla è più impudico di una confessione non richiesta.
Di un'anima che si apre.
Come una corolla.
A caccia di luce.
Come se la luce fosse l'unico perdono.

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