mercoledì 27 aprile 2016

E la pioggia riga il mio tempo; parole e pagine e un sospiro, come un mozzicone appena aspirato e poi lasciato in un angolo. Le parole sono il mio lavoro, la mia storia, la mia vita. Già, lo sono, mentre raccolgono i pensieri. A volte non ci riescono. Sono strane coppe per l’anima. Quel, più o meno maledetto fardello, di cui tutti parlano, facendone uso ed abuso. E che sfugge. Perché non è una convenzione. E si nasconde. Forse è solo una lumachina affondata nel suo guscio, che sbava senza ritegno, ritraendosi nella sua intimità più traballante. Tra certezze inoppugnabili e sussulti. Nel vetro l’ombra grigia delle mie mani, mentre scrivo, ed una vena quasi scintilla, appena appena.  Come se la memoria la volesse pungere, per estorcerle un poco di sangue. Quante goccioline? Non saprei proprio. Là si annida la nostra verità. Nel sangue che non sa mai mentire, neanche se lo costringi. Sentivi nei miei gemiti la cruda verità del mio desiderio? Era il mio sangue che si rimescolava. Quasi fossi un’arpa. Non avrei potuto nascondertelo, anche se ti parlavo addosso, perché mi vergognavo un poco del mio piacere,  imbarazzante ed incontenibile, quasi una donna fiume, come sono solo con te. E non capivo che solo nel silenzio mi avresti sentita per davvero, oltre ogni misura e parole, quasi senza realtà, ed oltre. La dimensione delle cose che ci accadono, che ci prendiamo, è la forma maldestra dei nostri sogni, che ballano dentro quella sagoma. E se si avvicinano al bordo, lo lisciano, fino a riempirci di oblio. E le cose belle sono sempre indefinite ed astratte, perché si rifiutano di incastrarsi in altro che non sia un soffio. E le mie dita su questa tastiera diluiscono alcune delusioni, ed aspettative mal celate, quasi malsane. Ed accarezzano sensazioni, affondate sotto i polpastrelli, che all’improvviso riaffiorano. Quando mi racconto per davvero, mi sento un poco più ricca. Perché in quel perdere pezzetti, frammenti minuscoli di noi, gli unici che ci sono consentiti, la nostra identità si rispecchia e si illumina, per rimescolarsi, e nascondersi ancora. Con poca voglia di essere stanata, ma di abbracciarsi, per sentirsi tutta, ferma ed un pochettino forte. Ero io, inesattamente io, ma vera. Ti chiedevo un segno. Lo desideravo davvero. Un piccolo segno che mi avrebbe arricchito della traccia indelebile del tuo passaggio. Ma non sapevo che già, da qualche parte di me, c’era quel lieve ma profondo solco. Anche nella mia mente e nella libertà di dirti quanto ti voglio. E che la idea delle tue dita, mentre vivono nella loro dimensione naturale, autonoma, diversa, lontana, mi intriga e mi eccita, immensamente.  Come se fosse quel filo sottile e fragile. Perché siamo migliori quando ci avviciniamo più che possiamo all’idea che sappiamo sentire di libertà. E ci facciamo compagnia. Poi gli altri arrivano ed è bellissimo. Ma siamo il giardino più ameno che per noi stessi possiamo immaginare. E quasi quasi ci viene voglia di viverci, con tutta la solitudine di cui siamo capaci. Fino a disperderci, perché è senza dubbio il mezzo migliore per ritrovarsi. Come se la fuga fosse un mezzo e non un fine. Ed un fine non ci fosse proprio. Ed io ti aspetto, femmina silenziosa, nel deserto che sarò capace di custodire, dove sarai ancora goccia.
Una e tante.
E ti terrò dentro, più che potrò.
Fino a schiudermi del tutto,
come fiore osceno,
nell’ultimo frammento di respiro che ci sarà concesso.
Per me sei indaco…e così resti.
****
Ma adesso non lo so più.
Vedo solo il vuoto ed il vuoto mi sembra immensamente nero.
Quanta incomprensione nelle parole, lanciate a caso dalla paura.
E nella incapacità di fidarsi e nel bisogno di difendersi sempre.
Nessun cerchio.
Solo frecce scagliate contro un cielo sconosciuto.
****
Queste parole erano destinate al vento
ma si sono frantumate prima di raggiungere il suo soffio.
Sono le ultime.
Ed il vento non le leggerà mai.
Vorrei solo che il ricordo diventi un poco meno ostile.
Nel tempo.
Io non volevo.
E il vento prima o poi lo sentirà.
Questo lo sento.

 restiamo ad occhi chiusi.

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