mercoledì 27 aprile 2016



E quante stelle dovrò aspettare?


Il mio gatto mi guarda. Lo fa spesso. E poi si strofina vezzoso contro le mie gambe, sbattendomi il musetto rosa sui piedi. E io non resisto. Non resisto mai alla tenerezza. Anche quella che mi fa paura. Affondo la mia mano e lo accarezzo. Lo facevo anche quando era solo un batuffolo. Ora lo è un poco di meno. Rivedo la mia casa, negli anni che furono. Piena di voci, di odori, di rumori. E Miscio in giro, nei posti più impensati. E noi che lo chiamavamo, a squarciagola, anche se è da sempre sordo. E queste mura, che ci hanno abbracciato la vita, a volte hanno solo guardato, mentre altre quasi vibravano. Quante crepe invisibili. Quante fessure sul nostro respiro. Quanto silenzio che ingombrava e ancora lo fa. I ricordi sono la parte di noi che ormai si è mescolata alla carne, imbrigliata alla mente, e lasciano segni ovunque, segni impercettibili. Se guardassi la mia carne forse potresti scorgerli. Si risvegliano ad ogni contatto. Ma io ho paura di essere toccata, o forse era ieri. Oggi ne ho meno timore. Dopo di te. Per quello ti ho detto un giorno che sei un dono. Non te lo ho spiegato. Forse se riuscirò mai te lo dirò. Va oltre ogni logica apparenza.  Ai tempi dell’università spesso studiavo di notte, un poco per via della insonnia, un poco perché ero sempre disordinatissima. – Un macello di donna -.  Lo ripeteva mia madre, mentre mia nonna mi sorrideva. - Fregatene, fregatene. C’è sempre un tempo per essere triste- Lo ripeteva e mi baciava, mentre mi accarezzava i capelli. Lo ha fatto finché ha avuto vita. Non mi ha fatto mai mancare parole dolci e baci. Ed è lei che mi ha insegnato a chiedere cose belle. Lo ripeteva sempre di chiedere alla vita le cose più belle, senza stancarmi. E io sono ridicola quando lo faccio, senza neanche sapere che cosa voglio. Forse solo farmi vibrare un istante l’anima. E sorridere alla vita, poco poco. E nelle mie notti ingerivo il mio the amaro, e ripetevo quello che studiavo passeggiando al buio. Tutto si stagliava e prendeva il suo posto. Neanche so se fosse quello giusto. Non so come io abbia superato gli esami. Al solo pensiero di tanta incoscienza, ancora rabbrividisco. E mi piaceva sfogliare le pagine e le albe.  Perché avevo superato la soglia di confidenza con la notte, come se fosse la mia capanna, il mio bosco fatato, il foglio bianco della mia mente. E la campagna davanti alla finestra, alla mia cornice, si spalancava, e si srotolava veloce, fremente, sino al mare.  Con l’odore del giorno che si mescolava a quello del caffè ed alla voce di mio padre. A quei tempi avevo i pugni pieni di sogni. E ancora adesso ne ho dei pezzetti, sparsi, qua e là, nelle tane dei miei segreti.  Anche quelli mai confessati, forse appena accennati, o solo sommessamente taciuti e sepolti lontani dalla memoria. E così ritrovo il loro calco tra le mie vene. Piango nei momenti più disparati, e mai con un vero senso. Come se le lacrime fossero il fiume segreto, il filo, di una parte nascosta che ho dimenticato, quasi sepolta, e come se il tempo fosse fatto di terra e di zolle. E poi scavare non mi è mai dispiaciuto.
E adesso spogliami piano e fammi tutto l’amore che puoi. Come due foglie parallele, che si strofinano e che si cercano la linfa tra gli stomi. Fallo e non fermarti. Perché ho bisogno di imparare l’oblio. Segnami come fa una stella, quando nessuno la guarda. Perché nelle mie ferite e nella loro scie c’è tutta la meravigliosa indecenza di cui posso essere capace.
E se fosse invece indecente meraviglia?
Non è una vera domanda.
Sono lo io che non resisto e mi piego a punto interrogativo, se capita.
Appena posso.


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