martedì 25 agosto 2015

Così una lacrima e forse una perla nel palmo, fino a rigarmi le linee, ed intrecciarsi come edera alla mia inquietudine. Radici di un albero sperduto e la sua linfa nel mio ventre. Traiettorie, forse scie, frecce verso l'indefinito ed il suo fascino con uno e mille colori, perchè li puoi pensare nella testa, uno per uno. Non ho verità, ma solo certezze mute ed immemori, senza più sangue, sangue di stella ed i suoi frammenti; sapessi quanto ferocemente tagliano e fanno vibrare le vene. Un tempo ero fiume e vorrei tu potessi vedere le tracce adesso su di me, sulla mia carne, dell'acqua che ho scorso e che precipitava oltre me ed ogni riva. E ora, allitterata come una vecchia canzone, quasi sponda della deriva di me stessa, mi avvolgo in una noia fitta come nebbia, fino a diluirmi e dimenticarmi. E non esistere è la misura del mio sogno. Forse la poesia del divenire ci salverà. O ci bacerà appena l'anima. Eppure a volte penso che vorrei assaggiare la tua bocca, lentamente, come se fosse rosa. Senza pretesa alcuna che di respirarti vicina. Eppure la vertigine più ardita è solo quella di essere capita, fino in fondo, fino alla fine di me stessa, senza via di ritorno e senza tregua. Ed oso e lo confesso, rea nell'odore di me stessa. E di quello che resta.

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