sabato 21 febbraio 2009

Coperta di erba.



Sara dormiva. Finalmente. Aveva intrapreso un viaggio.
E poi lo aveva spezzato. Sminuzzato. Masticato.
Era rotolato ai suoi piedi. Graffiandole le ginocchia.
Tutte sbucciate. Ed era rimbalzato.
Una specie di trottola. Impazzita. Una ladra di aria.

Una strana bambina.
Stringeva anche adesso, nel sogno,
la sua stranezza, alle sue dita,
tra le sue unghie corte, masticate dai suoi dubbi,
e sognava la normalità.
Mentre si stendeva sotto la sua coperta di erba.
Con il sonno intrecciato a mughetti.
Strofinati sulle sue tempie. Per non vedere altro che quel verde.

Era tutto così inconfessabile.

E lo respingeva dentro. Tutto annidato tra ventre e viscere.
Ricami al contrario sulla sua pelle.
Una trama che nessuno poteva conoscere.

Dentro di sè cresceva una pianta.
A volte nel cuore della notte il suo odore selvaggio e crudo
le tagliava il respiro e si mescolava alle sue pupille.
E le schizzava gli occhi di quel verde incofessabile.
Un sogno verde negli occhi verdi.
Come il fondo di una bottiglia svuotata a metà
in cui si rifugiava e vi restava sospesa in attesa di un demiurgo che non arrivava mai.
Insostenibile. Lei era là. In quelle radici.
Ovunque fosse. Impedendosi di darle frutto.

Nel momento in cui avesse permesso a quel pensiero,
fatto di cipria fine fine e di spessa acqua di rose, e di latte,
di uscire da sè, avrebbe sporcato l'aria.
La avrebbe bucata e rigata.
E tutto quel candore avrebbe contaminato.
Nessuno poteva capire. Neanche la crudeltà.
Quella non ha altra logica che la sua.

Dentro di noi ci siamo solo noi.

E poi un altro pezzetto di cammino. Non era sola.
Anche se fingeva di crederci. E poi ancora ferma. Ancora sonno.
All'improvviso capiva che serviva dormire. Un sonno che la sua anima reclamava.
E si tuffava nel suo sangue. E la sua anima con lei.
E si percorreva a ritroso. Perdendosi in un sonno. Senza sogni.
Solo pochi. E a volte. Quelli sbagliati.

Provava fame. Di sè. E di parole.
Le parole da sempre erano il suo cibo preferito.
Quelle senza inchiostro. Quelle fatte di carne.
Di schegge di anima. Di cartone e di metallo.
E di chicchi di caffè. E torbida rugiada.
Da bere in un sorso. Insieme alla incapacità di provare paura.

E si prostava davanti a quelle parole. Contemplandole.
Le vedeva sgorgare dalle sua bocca.
Le colavano dagli angoli delle labbra.
Percorrendola fino a terra.
A volte rotolavano come piccoli coralli inquieti. Impazziti.
Di una collana che nessuno avrebbe composto. Nessuno poteva.

E continuava a dormire. E la pianta cresceva.
A volte sembrava che le esplodesse dentro.

Ogni tanto qualcuno entrava. Si insinuava dalle fessure.
Si sedeva. Si stravaccava dentro di lei.
Lei faceva spazio. Si faceva piccola piccola. Fino a non poterne più.
Allora spostava le pareti del suo cuore. E andava via. Da sè.
Sarebbe tornata solo dopo il vuoto.
Quando ogni giudizio aveva fatto il suo corso.
Fino alla pozza della indifferenza.
Immenso baratro. Barattolo al contrario.

Adesso ancora dorme.
E io non voglio svegliarla.
Le bacerei le palpebre.
Gliele riempirei di stelle.
Farei navigare dentro i suoi occhi tante tante stelle.
Nessuno deve scostare la sua coperta fatta di fili di erba.
Nessuno.
Non svegliatela.

Raccolgo la mia pelle e mi limito a riprendere il mio di viaggio.
Quando vorrà Sara mi raggiungerà.

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