Erano ricami di salsedine. Graffi di mare e sole e terra. Quasi un incesto. Srotolati su un palmo liscio. Adagiati tra le linee della mano incerta. Disegnavano il tempo. E soffiavano via il resto. Dolcemente. Senza liberarsi mai di ogni traccia. Mai completamente. Mappa flebile e molle. Invisibili i solchi. E sulla mia schiena cercavo il sentiero. La strofinavo contro il cotone duro e grezzo. E contro la mia nudità. Tutta quella che avevo. E che riuscivo a scavare. Come nella sabbia. In cerca dell'acqua. Per rimuovere. Graffiare. Segnare. E conservare. Per arrivare. Senza essere mai andati. Nella immobilità si percepisce ogni variazione. Come in attesa della preda. Si fiuta il cambiamento. Un modo doveva esserci. E io lo trovavi. Tradussi quella lingua sconosciuta. Sembrava musica. Ma era fusa con il silenzio. E le sue parole le trattenni più a lungo possibile nelle vene. Rorida di memoria e di passato. Mi ritrovai ricordi a tappezzarmi la pelle. I ricordi sono la traduzione feconda del tempo. Amputata della ingenuità io cambiai. E, nonostante tutto, rinacqui. Ancora me.
Magari fosse vero.
Tu sei sale, sale della vita...
RispondiEliminaPerchè "magari"? Se riesci a descrivere questo processo di cambiamento interiore in modo così tenero, poetico, ma anche preciso vuol dire che l'hai già sperimentato...(vulcanoinaffitto)
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