martedì 17 febbraio 2009

Nella gabbia di cristallo
C'è una intimità che è davvero rinchiusa in uno scrigno. Con il senso di una inviolabilità. Quasi sacra. Inspiegabile. E' il tempio della nostra anima. Sospeso ma dentro di noi.
Oscilla anche se è ferma.
Non ci arrivi quasi mai.
Una specie di pelle al contrario. Se buchi l'esterno comunque non la tocchi. Là si colloca una parte di noi. Necessaria ma non essenziale. A volte, la semplice idea che per altri sia così facile toccare la tua vita ti dà ribrezzo. Le loro impronte sui pezzi della tua esistenza. Sui tuoi oggetti. Sulle tue cose. Non è un inutile senso di possesso.
Ho sempre beneficiato del giusto distacco.
Una specie di riverbero benefico del precetto evangelico della irrilevanza delle cose materiali. Riveduto e corretto. Quando perdevo le cose, spesso in verità, mi ripetevo che non era così grave. Anche se erano le scarpette della barbie, destinata a restare in eterno scalza, o perlomeno fino all'arrivo della sua nuova rivale con cui avrebbe condiviso quei tacchi di plastica. Una piccola fitta e mi rassicuravo. Una viziata filantropa. Bella roba.
E' che a volte non sai fino a che punto gli altri possono spingersi
e vorresti capire fin dove arriveranno.
Calibrare la distanza. Anticiparne le mosse. Quasi focalizzare quel punto e misurare quel momento. Da là nasce la diffidenza. Figlia di troppe impronte sbagliate. L'ho imparato da piccola. Fu scritto nella mia carne. Un tracciato senza via di ritorno.
La linea tra il bene e il male non si vede ma c'è.
Ma stata così netta.
Come margherite sfogliai la mia dignità. E grondai di quei petali. Lenti e sminuzzati. Dalla corolla al suolo. Non erano più bianchi. Non lo sarebbero mai più stati. Con le dita impregnate. Strati di dignità mi colavano tra le mani. E ci affondavo le dita. E le risucchiavo. Incredula. Svolazzarono davanti al capo. Mi voltai. Mi inondarono il viso. Chiusi gli occhi. Solcarono il mio collo. Mi impedii di respirare. E io inerme e scostante ne divenni il ricettacolo. Come fruste segnavano la mia carne. Solchi in cui si perdeva parte di me. Senza tornare più. Come fiume in piena. Ma senza foce. E i petali ai miei piedi. Nessuno doveva raccogliere. Nessuno deve farlo. Sarebbe come immergersi nelle sfoglie fragili della mia dignità latente e sorda.

Ho imparato a estrarre da dentro di me ogni dolore.
A tenerlo tra le mani.
Dietro la schiena.
Mentre ancora palpita.
E non smette di contorcersi.
Ad osservarlo.
Ho imparato a leccarmi il cuore.
E a ripulirlo.
Nulla è più puro del dolore.
Io ti ho sentito scendere dentro di me.
E là voglio che resti.
Ma non aprire vecchi armadi.
Della mia coscienza.
Non bermi.
Non sono acqua.
Sono sangue infetto.
E la sua coppa.
Smetterò di preoccuparmi della verità.
Ora è il tempo della apparenza e dei suoi fruscii.
Ma forse anche ieri.

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