sabato 7 febbraio 2009

Io non lo so. E sospesa sui miei gomiti contratti osservo il mondo. Mai stata dotata di equilibrio. Percepisco e dilato. Capovolgo e ricreo. Mi protendo. Mi affaccio. Mi ritraggo. Osservo il mio mondo. Un mondo storto. Obliquo. Fatto di pendenze e contropendenze. Mi rifiuto di pensare che qualcuno possa osservarmi. Nelle mie periperzie. Così in sospensione. E cercare risposte che io non ho. I miei occhi sono laghi di silenzio. Dalla superficie liquida e confusa. Come se tra occhi e cuore ci fosse stato un filo. Un tempo. Ora è reciso il filo e fluido e molle il tempo. Mi volto e cerco. L'inclinazione definitiva. Per non scivolare. Scruto il cielo silenzioso. E lo annuso. Senza voracità. Insieme alle nuvole. Sipario della luna. Stanotte si nega alla sua platea. Nessuna sagoma da intuire. Solo buio confuso e mobile. E il mio mondo da scrutare. La parte che non si vede è la mia preferita.
Chiudi la porta.
Ho freddo.

Vado e torno.
E poi rivado.
Immancabilmente ritorno.
Cosa mi lega a cosa?
E ci sono anche se non ci sono.
E non ci sono anche se ci sono.
Spio la mia assenza.
Mi fa orrore.
Urla e mi sorride.
Ogni volta lascio quella porta aperta.
E poi mi fingo meravigliata.
Come se avessi dimenticato l'uscio spalancato.
E traccio il percorso con briciole.
Di margherite.
E della mia pelle.
Le strappo dal mio prato.
Come facevi tu.
E poi lascio scivolare more per terra.
Sembra sangue.
Affinchè possano credere che io stia sanguinando.
Una emoragia di inquietudine.
"Non c'è più nulla da rubare" mi ripeto.
E mi lascio violare.
Scavare.
Ancora.
E sempre.
Il dolore non è in quello che portano via.
Ma nel sentire spostare i cardini.
Nel cigolio di quella porta.
Io sono in quella porta che striscia il pavimento.
In quella soglia calpestata.
Con indifferenza e crudeltà.
Di ladri.
In quel leggerissimo attrito di cui nessuno si cura.
Chiudi la porta.
Ho ancora freddo.

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